Gli appuntamenti di questo episodio:
Jana: L’universo di Alda Farinella – mostra | fino al 10 maggio | Circolo del Design
We Margiela: il film | 4 aprile ore 18 | Circolo del Design
Studio visit: Serien°umerica | 18 aprile ore 17 | Strada del Fortino 21, Torino
Finissage | 10 maggio ore 18 | Circolo del Design



Jana, iconico show room più simile a una galleria d’arte che a un negozio di abbigliamento. La padrona di casa? Alda Farinella. Con la sua capacità intuitiva e ricercata presentava, con sfrontati e sperimentali allestimenti, una selezionatissima e non convenzionale collezione di abiti e accessori di designer emergenti, che per prima proponeva in città: dalla scena giapponese di Comme des Garçons a quella belga di Margiela, insieme, tra gli altri a Paul Harnden, Carol Christian Poell e Vivienne Westwood.

Intro

Jana: L'universo di Alda Farinella di Maurizio Cilli e Stefano Mirti

Alla relazione tra la nostra città con la moda e il costume è dedicato il secondo episodio di Archivi d’Affetto attraverso un altro racconto speciale quanto unico: tributo alla straordinaria vicenda professionale di Alda Farinella. Figlia di Adriana Corino, assoluta fuoriclasse della camiceria su misura per l’uomo e la donna, Alda apprende il mestiere e impara in fretta i segreti dell’arte materna, abbandona gli studi in Economia e Commercio, non disegna, non cuce, il suo è un talento fatto di sensibilità e assoluto buon gusto verso i tessuti più raffinati, la cura dei dettagli e la capacità divertita di soddisfare le vanità della clientela. Alda è una commerciante.

Quando si parla di design in genere ci si concentra sugli autori (i designer) o sulle aziende. Sul processo quanto piuttosto sul prodotto. Raramente si parla degli altri soggetti coinvolti nelle diverse filiere merceologiche.  Concentrare le nostre attenzioni su Jana non è solamente il racconto di una storia umana e professionale realmente speciale. È una scelta precisa, il voler parlare di design da un punto di vista altro, inaspettato, spesso dimenticato e lasciato sullo sfondo.

Alda aprirà i suoi negozi, con il nome di Jana, diminutivo affettuoso con il quale le amiche chiamavano sua madre. Affianca sua madre a partire dal 1965 nell’atelier situato nella galleria che unisce via Pomba a corso Vittorio Emanuele II. Successivamente in corso Giulio Cesare, di fronte al Teatro Adua, poi in piazza Solferino al piano terra della casa natale di Filippo Turati, spazio nel quale collabora con Gianni Combi. Per un breve periodo sposta la sua attività in via Amendola e a partire dagli anni Ottanta apre lo spazio sotto i portici di piazza Vittorio Veneto sull’angolo dal Caffè Elena, dove nell’autunno del 1993 viene presentata in anteprima assoluta, una selezione di abiti del designer belga Martin Margiela. Infine, l’ultimo, il più grande, al civico 45 di via Maria Vittoria. Spazio unico nel suo genere, più simile a una galleria d’arte che a un negozio di abbigliamento nel quale prende forma l’arte di presentare la sua selezionatissima collezione di abiti, accessori e oggetti di affezione. Uno spazio dall’atmosfera essenziale, nulla di simile si era mai visto prima.

Qui Alda propone abiti di designer e aziende emergenti, per prima in città e non solo, propone indumenti dalle linee austere, minimali che tradiscono le simmetrie e le forme della moda convenzionale. Jana è la scena nella quale una selezionata clientela si affeziona all’attitudine e al tocco del design di scuola giapponese. Abiti nati dalle linee disegnate da Rei Kawakubo, fondatrice di Comme des Garçons, casa di moda nella quale si formeranno Junya Watanabe, Tao Kurihara e Adrian Joffe. Nello spazio di Alda i torinesi si innamorano degli abiti di Yohji Yamamoto e di Vivienne Westwood (autentica musa per Alda). Jana per prima propone, nei primi anni del duemila, le creazioni di designer europei come Paul Harnden, Elena Dawson e Carol Christian Poell.

Non è semplice diventare clienti da Jana, puoi desiderare di esserlo ma è lei a scegliere, Nei suoi commenti è schietta, un gioco sottile di sagacia e ironia che ha tracciato una via che dopo di lei in pochi hanno saputo percorrere.

Il design è anche commercio, soldi, clienti, fornitori, negozi. Un mondo che, come clienti, conosciamo bene: questa mostra ci ricorda il ruolo centrale del soggetto che “vende” il prodotto. Un soggetto adesso minacciato dall’impersonalità del commercio on-line e dalla natura onnivora della grande distribuzione. Proprio per questo, ci piace presentare in una maniera così particolare Alda e il suo negozio Jana. Un negozio di moda che riusciva a dare un carattere molto definito a un piccolo (ma importante) pezzo di città. Un omaggio alla professionalità di chi si occupa di “vendere” il design nelle sue molteplici sfaccettature.

Questo episodio di Archivi d’Affetto non vuole essere solo un meritato tributo ma è stata l’occasione di offrire ad Alda una nuova occasione, nel presente, poco prima della sua improvvisa morte il 4 febbraio 2024, per prendere voce e tendere la mano ai tanti studenti che in città, in questo momento, hanno scelto di studiare per diventare a vario titolo professionisti nell’industria della moda. Secondo questa intenzione la collaborazione con Maria De Ambrogio e Stella Tosco di “Serien°umerica” è stata l’occasione per donare il privilegio a Matteo Giaretti e Federico Ponzo, due giovani e promettenti designer di un’esperienza diretta di lavoro per progettare una collezione di camicie dedicata al lavoro di Alda Farinella.  Rinnovare il sogno e il desiderio che in città, presto qualcuno, raccolga la sua eredità e la sua attitudine trasgressiva.

Chi

Alda Farinella

Alda Farinella nasce a Torino il 27 settembre 1942, figlia di Adriana Corino, camiciaia ed Emilio Farinella impiegato di Pubblica Sicurezza. Nel dicembre del 1964 si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio di Torino, studi che abbandona per dedicarsi alla vendita nell’atelier di sua madre situato all’interno della galleria che univa via Pomba a corso Vittorio Emanuele II. Seguono diverse aperture dei negozi con il nome di Jana, diminutivo affettuoso con il quale le amiche chiamavano sua madre, dapprima in corso Giulio Cesare, di fronte al Teatro Adua, poi in piazza Solferino al piano terra della casa natale di Filippo Turati, per un breve periodo in via Amendola, sino, a partire dagli anni Ottanta, nello spazio sotto i portici di piazza Vittorio Veneto sull’angolo dal Caffè Elena, dove nell’autunno del 1993 viene presentata in anteprima assoluta, una selezione di abiti del designer belga Martin Margiela. Infine, l’ultimo, il più grande, al civico 45 di via Maria Vittoria. Spazio unico nel suo genere, più simile a una galleria d’arte che a un negozio di abbigliamento nel quale prende forma l’arte di presentare la sua selezionatissima collezione di abiti, accessori e oggetti di affezione. Per prima in città e non solo, propone indumenti dalle linee austere, minimali che tradiscono le simmetrie e le forme della moda convenzionale. Nel suo negozio propone Abiti le linee disegnate da Rei Kawakubo, fondatrice di Comme des Garçons, casa di moda nella quale si formeranno Junya Watanabe, Tao Kurihara e Adrian Joffe. Nello spazio di Alda i torinesi si innamorano degli abiti di Yohji Yamamoto e di Vivienne Westwood (autentica musa per Alda). Jana per prima propone, nei primi anni del duemila, le creazioni di designer europei come Paul Harnden, Elena Dawson e Carol Christian Poell. Alda Farinella muore a Torino il 4 febbraio 2024.

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Crediti

Foto icona: Alberto Nidola, 2019
Foto nel cassetto: Silvia Pastore, Artissima 2019

Video

Testimonianze in collaborazione con IED Torino

In questa sezione abbiamo raccolto una serie di testimonianze da parte di chi ha conosciuto da vicino e collaborato con Alda Farinella: le sue assistenti Angela Cecchinato e Marinella Gazzano, il fashion designer Matteo Thiela, l’artista visivo, scrittore e fashion art director Maurizio Vetrugno, le affezionate clienti Isabella Errani e Margherita Verani e uno dei curatori di Archivi d’Affetto Maurizio Cilli.

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Crediti

Video realizzato dagli studenti e dalle studentesse del terzo anno del Corso Triennale in Fotografia di IED Torino:

Giulia Ballerini

Alessio Bergadano

Luca De Stefano

Silvio Giovanni Maria Figliuolo

Nicoló Paolo Mattalia

Stefano Puntillo

Emanuele Riva

Alessandro David Scalzeggi

 

Docenti IED coordinatori e coordinatrici del progetto:

Eleonora Diana

Guglielmo Diana

Federico Lagna

 

Coordinatrice del corso

Giulia Ticozzi

Autore

Serien°umerica x Jana di Serien°umerica in collaborazione con Matteo Giaretti e Federico Ponzo (IAAD.)

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Bio

SERIEN°UMERICA è un marchio che ha fatto della ricerca il suo punto di forza. Le due designer, Maria De Ambrogio e Stella Tosco, lavorano a stretto contatto con artigiani italiani forzando lavorazioni tradizionali e cambiando le regole del classico per valorizzare e plasmare materie prime di altissima qualità.
Dal 2009 SERIEN°UMERICA si concentra sulla maglieria e gli accessori in pelle: linee e le forme minimali con particolari lavorazioni che reinterpretano il made in Italy e valorizzano il lavoro artigianale.
Gommature, tinture in capo e destrutturazione caratterizzano collezioni apparentemente minimali per la pulizia formale, ma complesse nei dettagli e nella costruzione del capo.
Ogni fase è frutto del dialogo tra tradizione e nuove tecnologie.
SERIEN°UMERICA presenta le nuove collezioni durante la settimana della moda di Parigi all’interno di una galleria privata nel Marais.
SERIEN°UMERICA è distribuita in circa 100 negozi a livello mondiale in Europa, America, Cina e Giappone. Tra questi alcuni tra i più importanti concept store del mondo (come Selfridges a Londra o Maxwell negli USA).

 

Matteo Giaretti e Federico Ponzo sono due giovani ventunenni piemontesi con una passione comune: la moda.
Entrambi condividono una vasta gamma di interessi, che spaziano dallo sport alla creatività e, nel corso di Textile & Fashion Design che frequentano presso lo IAAD. di Torino, hanno trovato un terreno fertile per coltivare le proprie passioni e ampliare le proprie conoscenze: hanno vissuto esperienze che prima sembravano irraggiungibili e aperto le porte a un futuro ricco di possibilità come fashion designer.

Crediti

Foto icona cassetto: Ivan Cazzola

Foto camicie Serien°umerica: Giorgia Mannavola

Video

Backstage “Serien°umerica x Jana” in collaborazione con IED Torino

Il video racconta il dietro le quinte della realizzazione della capsule collection "Serien°umerica X JANA" dedicata ad Alda Farinella e realizzata da Serien°umerica con la collaborazione di Matteo Giaretti e Federico Ponzo.

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Crediti

Si ringraziano per la collaborazione:

Serien°umerica

Maria De Ambrogio

Stella Tosco

 

IAAD. – Istituto d’arte Applicata e Design

Corso in Textile & Fashion Design

Matteo Giaretti

Federico Ponzo

 

Video realizzato dagli studenti e dalle studentesse del terzo anno del Corso Triennale in Fotografia di IED Torino

Pietro Maria Campi

Gian Marco Geraci

Federico Lombardo

Elisa Scarduelli

Erika Sorbello

Andrea Terlizzi

Greta Verduci

 

Docenti IED coordinatori e coordinatrici del progetto:

Eleonora Diana

Guglielmo Diana

Federico Lagna

 

Coordinatrice del corso

Giulia Ticozzi

Testo

Flusso di pensieri di Carlo Antonelli di Carlo Antonelli

Stefano Mirti

Se tu dovessi raccontare questo periodo a una persona più giovane, c’è qui Elisa per esempio o nostri studenti del corso di NABA del “New Made in Italy“…

 

Carlo Antonelli

La cosa più strana che sta succedendo – e che non avrei mai immaginato – è che mi stanno chiedendo tantissime interviste sugli anni ‘90. Tutto questo mi ricorda l’ossessione per gli anni ‘60, in particolare per il cavallo tra il ‘60 e ‘70 che ho sempre avuto, e per i suoi protagonisti. Per questo questa cosa mi preoccupa molto. Mi preoccupa il fatto di essere storicizzato in qualche modo come figura degli anni ‘90. Questo è da un lato un problema personale, perché evidentemente ha a che fare con il passare del tempo e poi con la solita faccenda dei tempi del revival, che sono cicli di 20, massimo 30 anni, a seconda dei casi. I tempi sono gli stessi. Si sapeva che sarebbe arrivato, ma quello a cui non pensavo è di essere io in qualche modo un rappresentante di quel periodo, e basta.

 

Mi sembra invece di aver vissuto parecchi periodi. Quindi, faccio fatica a rispondere a questo tipo di domande, un po’ per vanità, un po’ perché sinceramente non penso in alcun modo che si sia trattato di un periodo speciale. È stato un periodo normalissimo. Molto chiaramente definito, non tanto da una divisione in decadi del tempo. Che non c’è, perché evidentemente è una divisione che non esiste. È tutto nella nostra mente. Neanche, nemmeno probabilmente nella nostra mente. 

 

SM

Pare che gli anni ‘80, ad esempio, inizino con l’omicidio di John Lennon e finiscano con il crollo del muro di Berlino, non ci credi tanto?

 

CA

No, io penso che non esista. Penso che esista un lungo periodo, come diceva Marc Bloch, c’è una longue durée che più o meno è situata tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio del 2020.

 

SM

È un blocco unico. Fino all’inizio del 2020.

 

CA

Sì, e che ha una cesura, diciamo una specie di ferita, alla Fontana, che ovviamente é il 2001 delle Twin Towers, in Italia se vuoi anche del G8. È una cesura, non è un taglio.

 

SM

Netto invece quello della fine degli anni ‘70, decade che certamente lì finisce.

 

CA

La fine del ‘70, invece, ha un significato molto forte perché c’è un cambio di estetica, di stili di vita, di modelli lavorativi. E di avanzamento tecnologico radicale. Che arriva fino a pochissimo tempo fa e comunque fa ancora parte del mondo in cui viviamo. 

In Italia questo, soprattutto, è molto chiaro perché il ‘77 segna la fine di una certa idea di movimento e l’inizio di un ritiro nel privato che si chiamò riflusso ma che in realtà ha molto a che fare invece con qualcos’altro e che accade quasi dappertutto nel mondo, con l’avvento di quello che nel mondo della cultura si chiama postmoderno. Ma sono forme che avvengono contemporaneamente, così come sono avvenute contemporaneamente tra la fine degli anni ‘50 e, appunto, il periodo antecedente a questo. 

Gli anni Ottanta sono classificati da un periodo di crescita economica esponenziale che genera tutta l’estetica che ben conosciamo, e che è stata adesso addirittura celebrata con il compleanno di “Vacanze di Natale“. Che ovviamente contiene più intelligenza di quello che si pensava, il “Drive In” di Ricci eccetera, ma è un altro discorso. 

Gli anni Novanta poi vedono nel ‘91 la prima guerra del Golfo, quindi iniziamo a vedere queste immagini tremolanti in TV con le strisce con dei razzi verdognoli. A cui segue un primo periodo di recessione, che allora sembrava estremamente significativo. Invece, poi visto dall’osservatorio attuale, non è così significativo e comunque non certo in una prospettiva generale. Comunque lì per lì si parlò in qualche modo di un periodo cupo, che coincise nello specifico in Italia, con Tangentopoli, che chiude effettivamente gli anni Ottanta e un certo tipo di anni Ottanta.  

Se lavoriamo in parallelo sul mondo e sull’Italia facciamo fatica perché c’è una peculiarità italiana che è quella di anticipare quasi i movimenti planetari, specie in politica, che rende le cose particolarmente difficili. Noi siamo sempre 5, 6 anni in avanti da questo punto di vista. Per moltissimi aspetti si fa un po’ fatica a distinguere la situazione locale da quella generale. Sono due linee, diciamo, che non sempre corrono parallele. Qui, i Novanta sono un periodo grigio, Milano, per esempio, è una città grigissima. Molto più grigia della rappresentazione, che ne so, di Sironi. Vuota, ma con un traffico mostruoso che la avviluppa nelle ore di punta. Apparentemente non ha molto da offrire, se non (coda che è sempre stata una sua caratteristica straordinaria) meritocrazia, cioè la capacità di riuscire a dare lavoro a chi in qualche modo ha alcune capacità reali, cosa che naturalmente non accade in tutto il resto  del paese e immagino anche a Torino. 

Torino è fuori dalla mappa, non è una città che si frequenta, è una città che si era vagamente frequentata negli anni ‘80 a causa di alcune questioni musicali, in particolare locali, Hiroshima Mon Amour, la radio, anche alcune band o singole realtà artistiche. Entra nella mappa culturale con l’apertura del Castello di Rivoli, ovvero del primo museo di arte contemporanea italiana. E con l’inizio dell’attività di una signora con un ciuffo particolarmente prominente, che tuttora la rende leggendaria in tutto il mondo ovvero la signora Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. La città – esclusi esempi eccellenti, ovvio Subsonica e il giro di Xplosiva (post Hiroshima Mon Amour) – è una città storica, Il cui fulcro vivo è un Festival straordinario, irripetibile, che è stato “Cinema giovani”, diretto da Alberto Barbera. 5 edizioni formidabili (se non sbaglio) al cinema Massimo, nel quale uno poteva vagare tra le tre sale, senza aspettare la fine o l’inizio di un film. C’era tutta la gente seduta sui gradini, era un posto magnifico, con delle retrospettive clamorose, ed è senz’altro il Festival – giovane o meno – più bello che è stato fatto in Italia. Andrà poi alla direzione della Biennale del cinema di Venezia, trasformandola in questi 10 anni in un evento hollywoodiano assoluto. Si parla di un professionista di livello clamoroso: nessun film d’apertura di Venezia non ha guadagnato almeno un Oscar, distruggendo Cannes, che è una cosa praticamente impossibile da fare. Ma aldilà di questo, quello di Barbera negli anni Novanta è veramente un festival clamoroso. A cui si unisce, ora che mi viene in mente, il festival del cinema omosessuale. In particolare devo dire dedicato ad una forte attenzione di solito rara al cinema lesbico, con diciamo presenze butch mica da ridere. Ecco, il nuovo a Torino per me era questo, sono questi 4 o 5 spot, ma non è che Milano fosse di molto differente oppure la Bologna del secondo o terzo giro d’eccellenza. Rimane il fatto che l’italia è un terreno storico, nel quale il nuovo è fatto di puntini. Non irrompe all’interno né della struttura sociale né della mobilità sociale, né della struttura urbanistica della città. 

 

SM

Congruo? 

 

CA

In alcuni casi leggendario per quanto riguarda il mercato degli studenti, non è questo il caso di Torino, ma naturalmente il caso di Bologna. I prezzi arrivano a livelli stratosferici, c’è gente che dorme in 7 in una in una camera, case composte di 25 studenti dal sud, cose mai viste. E dentro questo panorama ci si muove. In maniera molto rarefatta e anche molto comoda, nel senso che non essendoci niente uno va da un punto all’altro di questo gioco della Settimana Enigmistica dell’unire i puntini in maniera molto tranquilla. Cioè, è un periodo molto quieto da un certo punto di vista. Nonostante la produzione culturale sia molto alta, la verità è che si tratta di un periodo molto quieto, molto poco intenso. Molto poco intenso dal punto di vista della presenza in strada di politica, per esempio. A quanto ricordo, cioè faccio un esempio, non ci fu nel ‘94 se non sbaglio,ci fu l’ingresso in politica di Berlusconi, un fatto gravissimo. Eppure non ci sono manifestazioni gigantesche di protesta in tutta Italia. Cioè inizia lì il drenaggio dei risparmi delle famiglie, quindi inizia l’impossibilità dei figli di diventare più ricchi dei genitori, cosa che invece aveva caratterizzato tutti i decenni dal dopoguerra. In qualche modo, nasce una forma inevitabile di conservatorismo che continua a rimanere ovunque. Questo nel paese reale: la provincia rimane identica, con gli strusci della domenica. Lo stesso sono certo che riguarda anche Torino.

Quindi il terreno è questo, nel migliore dei casi. Senza andare a vedere i grandi eventi storici internazionali, il Paese è caratterizzato politicamente, in realtà da un’altra parte, da una specie di quiete. C’è una concentrazione eccessiva sulla figura personale del leader che è Silvio Berlusconi, cosa che vista oggi fa molto ridere. ma la verità è che il fatto che Berlusconi possieda due o tre televisioni, visto oggi, è completamente ridicolo. Il fatto che i comportamenti privati venissero in qualche modo espressi all’interno dei palazzi di governo, era ovviamente un fatto grave. Ma i fatti gravi sono ben altri. I fatti gravi sono quelli che stanno accadendo ora, non so come dire, cioè in quel momento non sono aggredite le libertà civili. Le libertà fondamentali non sono aggredite. Sì, si possono discutere questioni, tipo tassazioni, agevolazioni per i ricchi e cose di questo genere, ma sta di fatto che la gente fa il cazzo che vuole. Cosa che non è adesso. 

In parallelo l’avvento molto forte della tecnologia. Un cambiamento che parte alla fine degli anni ‘70.

 

SM

Cioè quando?

 

CA

Nel ‘92 la scuola romana gemmò una rivista fondamentale che era DeriveApprodi, che parla di trasformazione del lavoro in un linguaggio: il lavoro di tutti diventa fare codice e costruire relazioni. Io scrivo la tesi con una macchina da scrivere elettronica, che ha un display. Inizio a lavorare nel ‘90: in ufficio ci sono ancora le macchine col display. Dopo un anno ci sono PC sul quale lavorare. C’è il fax.

Nel ‘92 il mio boss, ma anche i miei migliori amici, iniziano ad avere un telefonino. Nel ‘94 anche io ho il telefonino – che vuol dire che ho il telefonino da trent’anni, di cui faccio un uso sfrenato fin dall’inizio in maniera assolutamente bulimica, così come faccio adesso -.  Si sentono gli scricchiolii dei fax, cosa di cui ci siamo dimenticati. Nel ‘94 massimo a casa mia c’è la rete, ci sono le mail, cose di questo genere. Cambia tutto.
Cambiano un po’ le tipologie del lavoro, cambia l’idea del tempo, eccetera eccetera. Cambia tutto intorno a noi.
Ricordo un momento specifico, un momento del ‘95 in cui ero a Londra che lavoravo per MTV, nella sezione diciamo creativa, quella che faceva i video con un amico che si chiama Paolo Cavedda. Mi ricordo benissimo che stavamo a Camden ed è partito un pezzo di Jungle fantastico che è il pezzo di Goldie che si chiama Inner City Life. Da un po’ sentivamo Jungle, non sapevamo neanche come ballarla (avevamo capito dopo che bisognava seguire la linea del basso e tutto diventava più semplice perché era troppo frammentata). Ascoltavamo anche la drum and bass. C’era Thomas, un nostro amico tedesco, che aveva un modello di Erikson molto bello, vestito con una giacca Carhartt e aveva ai piedi le Nike. Diciamo le Nike classiche, argentate, un modello che fanno così ancora adesso. E a lui ho detto: “Cazzo, cioè questa roba qua è veramente un nuovo mondo!”.
Così come mi ricordo benissimo un momento, forse due anni dopo, mentre ero sul 12  al telefono ricevo una chiamata – perché già da allora ovviamente ho utilizzato il telefonino per stare in ufficio il meno possibile – in cui c’era uno in Nepal e uno a Los Angeles. Io ero sul tram a Torino. E lì avevo detto “ok, finalmente”. Io sono appassionato di fantascienza, fin da quando ero piccolo, dico: “Finalmente ci siamo, finalmente qualcosa di fantastico”.
Però non è che questo mondo non esistesse nell’immaginazione con cui si stava creando prima, perché è un mondo che esisteva nei videogiochi, nei videogiochi che uno faceva al bar, che diventavano sempre più complessi, dalla fine degli anni ‘60 da Asteroid, a Quark eccetera. Era un mondo che veramente c’era al cinema. Era un mondo che c’era nei fumetti della Marvel.
Era un mondo che c’era dentro al Commodore, c’erano dentro gli strumenti elettronici che stavamo suonando, c’era dentro il Walkman che è un oggetto che ha un’importanza enorme, un oggetto del ‘78 della Sony che cambia completamente il modo di vivere l’urbano perché consente di sentire musica andando in giro per la città. Con una parola geniale, perché nell’essere in qualche modo clumsy come sono i giapponesi, imbroccano la verità senza volerlo, nel senso che c’è un uomo che cammina ed è guidato dalla musica. Non si tratta del contrario, cioè non è un uomo che sente musica, è un uomo che è agito dalla musica stessa, cosa che è vera, e non c’è nulla di cambiato nel modo in cui io in questo momento sento musica: unicamente andando in giro con le cuffiette.

Così come già dagli anni ‘80 io studiavo con il libro, la tv aperta, la radio nelle cuffie,  il telefono costantemente in mano, cioè proprio multitasking, l’avevo già assimilato da parecchio tempo. E alla TV c’erano 10.000 emittenti private, quindi c’era di tutto. Questa è la specificità dell’Italia, per questo dico che è una questione di long durée. A mano a mano arrivano anche agli anni ‘90.

SM

Quali sono le altre invenzioni che hanno segnato questo passaggio?

 

CA

Già prendevamo molti voli. Già li prendevano altri, ma la mia è la prima generazione che inizia a prendere parecchi voli, cioè che inizia ad avere una forte mobilità. Questo nasce intorno all’82, ‘83: gente che inizia a carambolare tra Londra, Torino, New York, Tokyo in maniera costante a seconda delle tasche, ma sicuramente Londra è un posto di riferimento costante per cui si va avanti e indietro in continuazione, poi in altri luoghi.
Questa familiarità col viaggio negli anni ‘90 nel mondo dell’arte genera una nuova popolazione che è in grado di ruotare intorno alle biennali e che aumenta rispetto al giro molto più piccolo dell’arte contemporanea di prima. E poi l’invenzione delle biennali in altre parti del mondo che generano ulteriore migrazione che qualcuno chiamò globalizzazione, termine che poi è andato sbriciolandosi. Com’erano vestiti, cos’era che caratterizzava tutta questa gente che si muoveva? E anche lì è un muoversi da un dot all’altro, da un puntino all’altro. Cioè è una schiera, sono come delle migrazioni di uccelli, sono degli uccelli che migrano all’interno della città da un punto all’altro.

 

SM

Come sono vestiti questi uccelli? Di nero?

 

CA

Quello che caratterizzava il mondo dell’arte era che tutti erano vestiti di nero. Questo già alla fine degli anni ‘60. L’unica differenza è che negli anni ‘90 la differenza si fa a seconda delle tasche, che per chi riusciva, sempre secondo il gioco della Settimana Enigmistica, a individuare le differenze, riusciva a capire che il taglio delle singole cose poteva essere più o meno sofisticato.
Però Comme des Garçons è nero, Yohji Yamamoto è nero, e Margiela bisogna vedere, ma il grosso in qualche modo è sempre quello, il taglio per la donna è sempre il nero.

 

SM

Perché? 

 

CA

Perché uno è una questione di comodità, secondo, era un elemento di distinzione rispetto al vestire borghese tradizionale ed era anche un metodo di riconoscimento. Come tutte le tribù. Vestivano di nero. Anche più interessanti, invece era il modo con cui si vestivano, diciamo quelli che iniziavano ad inventare uno stile urbano che anche in questo caso è arrivato fino a qua. Lo stile urbano vero e proprio nasce chissà quando, ma certamente anche un po’ alla volta, alla fine degli anni ‘70 prende gli stilemi, diciamo dell’hip hop all’interno della cultura africana americana. Che conosciamo, compreso il collanone che ha tuttora Tony Effe.

 

Mano a mano si evolve e si scopre, grazie anche al lavoro di alcuni italiani, il workwear oggi di modissima, come Carhartt, Blundstone e nasce questa figura urbana, specialmente milanese e anche frequentatrice di centri sociali, che è molto vicina al modo a cui comunque ci continuiamo a vestire. Con l’unica differenza che questo modo è diventato da un modo che riguarda le persone che non lavoravano a quello delle persone che lavorano.

Mi ricordo che si lamentavano moltissimo perché andavo con le scarpe da ginnastica in ufficio. Poi ci sono delle foto che effettivamente sembro vestito come nel 2020, veramente, era un modo di essere anche il modo di ricercare: cercavo delle cose skate… Nascono tutti i marchi: Stussy, DC, Powell Peralta, Supreme… Tutto nasce in quel periodo e poi esplode.
Stone Island nasce naturalmente in quel periodo, marchio che vestivo tantissimo. Nasce in quel periodo, esce e si espande.
Anche quella è in qualche modo una tribù che si forma, compreso l’uso dello sportwear intorno a un elemento che invece è un unicamente italiano, che è quello dei centri sociali: passano dall’essere posti oscuri frequentati da ex fricchettoni coi cani – cani che rimangono peraltro –  a posti di gente che è interessata alla trasformazione urbana, che deriva – e qui l’importanza milanese – da un centro sociale come Conchetta. L’invenzione di Decoder, l’intuizione che cyberpunk, di cui erano usciti i primi romanzi alla fine degli anni ‘80, potesse essere anche un movimento politico – invenzione del tutto italiana – motivo per cui Bruce Sterling vive a Torino, perché negli Stati Uniti lo conoscono di meno. 

E in quel momento c’è anche un certo tipo di estetica che si incrocia con l’altra rivoluzione, che è un rivoluzione musicale che parte dalla fine degli anni ‘80 con la house e poi la techno, rivoluzione che ha delle forme estetiche specifiche e dei sottogeneri troppo complessi per essere riassunti qui, ma che certamente anche in quel caso costituisce un’altra tribù itinerante sul territorio italiano. Una tribù itinerante che tocca per esempio, ovviamente, clamorosamente la riviera romagnola. Anche in maniera sofisticata, perché dentro al Cocoricò c’è il famoso Titilla dove, che ne so, mette i dischi Romeo Castellucci, altro re del super nero.

È anche una gara nel vestirsi in maniera diciamo avanguard, che riguarda per esempio viale Ceccarini a Riccione.
Ma è una moda mondiale, certamente europea, sostenuta in Italia da qualche boutique. 

 

SM

In Italia? 

 

CA

C’è Margiela, sostenuto da 15 boutique in Italia e qualche boutique in Giappone e un paio di boutique a New York. Ma il grosso è italiano: sono Penelope a Brescia, Jana il negozio di Alda Farinella a Torino, non mi ricordo chi a Bari, un negozio a Riccione, un negozio a Bergamo, ovviamente, dopo Corso Como, Firenze, ma in particolare nella provincia ricca di signore, mogli del manifatturiero, che per primeggiare nei confronti delle altre, che sono troppo borghesi si rivalgono mettendosi delle cose particolarmente sofisticate, astruse e chic. 

Di questo campa la signora, cioè del fatto che il vestire determina un bagaglio culturale. Chi veste ha sempre sotto di sé un bagaglio culturale. Anche vestire classico, naturalmente però, ha più a che vedere uno con expertise sui tessuti e sui materiali e sui tagli e sulla fattura, principalmente sulla qualità dei materiali stessi, e poi diciamo con un certo gusto cromatico che poteva derivare dalla proprio bassa o ampia conoscenza della storia dell’arte.
Questo esprime evidentemente anche Alda Farinella a Torino, cioè uno si mette Margiela perché Margiela presuppone la capacità di entrare dentro un’idea concettuale del mondo, con un ritorno molto forte tra l’altro dell’arte concettuale in contemporanea, e l’astrazione che ritorna in termini musicali è un modo non solo per piacere a se stessi, ma per comunicare che si fa parte di un réseau culturale, internazionale, chiaro per dare dei segnali, infatti, generalmente Margiela non mette l’etichetta dentro, ma mette per esempio fuori le famose quattro cuciture in modo che gli uccelli di queste migrazioni si riconoscano molto rapidamente. Sono segnali molto rapidi, così come il taglio di Yohji Yamamoto è molto riconoscibile e quello di Comme des Garçons.

 

SM

Cioè come? 

 

CA

Negli anni ‘80 resiste un forte rapporto, per esempio in quel momento tra Milano e Parigi.

E nel momento in cui tu fai due lire, mentre prima cerchi di imitare con quello che trovi uno stile che ti interessa e che guardi naturalmente sulle riviste di moda o sulle  riviste di stile che comunque hanno in ogni caso in quel momento un’esplosione, inizi a comprarti i pezzi veri e propri che sono molto simili, così come in parallelo nasce il mercato dell’usato e anche il mercato, diciamo dei cosiddetti outlet, che è molto forte. L’outlet degli anni ‘90 di Casalecchio del Reno dove c’era una selezionatrice incredibile che poi e’ diventata (insieme alla tecnologia) il cuore dell’inizio di Yoox di Federico Marchetti, perché era una signora che sapeva bene le cose che stavano in giro. Però i pezzi più belli che ho li ho comprati nella provincia dietro Chiavari, in un posto assurdo che raccattava non so dove, da boutique dimenticate da queste signore, roba invendibile che poi veniva venduta a poco. Tutte cose che poi si trasformano in app, in Vinted in cose così eccetera eccetera.
Più o meno sono vestito come le persone che vediamo in giro di vent’anni, sento la stessa musica, vado al Club to Club, so tutto, conosco tutto, conosco il DNA di tutto quello che è stato fatto, e mi dispiace perché vedo che c’è un blocco di tempo unico che è un blocco di trent’anni, cosa che non è mai successa, cioè: negli anni quaranta e negli anni ‘70 si ballava la stessa musica, si vestiva allo stesso modo, eccetera eccetera. Per questo che noi delineiamo un blocco di tempo unico.
Fortunatamente quello che sta accadendo è che in questo momento, una serie di fattori che sono nati ovviamente col Covid, ma non in quanto Covid in sé, in quanto è una tragedia che è indimenticabile, ma che in realtà è già stata praticamente dimenticata, o quasi, se non da chi ha avuto un morto in casa, ma da questo momento in poi si entra in un altro tipo di fantascienza. Un tipo di fantascienza che per esempio nasce dall’avvento nella vita quotidiana dell’AI e di un tipo di estetica che finalmente marca la differenza, che in particolare proviene da un altro mondo che non è il mondo della moda, ma un nuovo radicale approccio allo sportswear. E anche tutto l’individualismo che riguarda questo momento. 

Tutto quello di cui abbiamo parlato fin qui finisce perché siamo talmente nella merda, da un certo punto di vista, che tutto questo non è più possibile. Non è più possibile lavorare, non è più possibile vivere allo stesso modo, non è più possibile andare d’estate al mare. Non è più possibile fare niente di quello che si poteva fare prima.  Siamo fregati da milioni di “Non è più possibile fare questo, quest’altro e quest’altra cosa”.

 

SM

Si fanno delle altre cose? 

 

CA

C’è una libertà enorme di potersi muovere, che non era quella del periodo precedente, che in realtà sotto sotto rispetto a oggi è conservatore, perché agisce ancora con gli stessi criteri e in questo momento si apre il gioco più interessante, cioè il “gioco” che definitivamente ci dice che andiamo verso l’estinzione.

Quindi il dark non può più essere dark nel senso ridicolo del termine, perché pure lui creperà, non può poi far finta di essere triste. Per questo i ragazzini usano tante magliette di Doom o cose di questo genere proprio perché sanno che quella possibilità finale lì esiste davvero. Oppure ci sono altre possibilità completamente impreviste, strabilianti, di rovescio di vita, che davvero aprono un gioco che è un gioco radicale.

E qua c’è il taglio, finalmente, dell’epoca, a mio avviso: gli anni ‘90 che sono solo meno fitti delle stesse cose che poi hanno infittito e hanno riempito quasi completamente lo spazio. Anzi totalmente lo spazio fino ad oggi.
Ora si cambia.

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Bio

Carlo Antonelli

59 anni, è un produttore culturale. Ha fatto radio e il dj nei club, ha diretto una casa discografica (premiata con qualche Grammy Awards), scritto e fatto scrivere libri. Ha inventato due festival di innovazione (uno da 180.000 persone, il ‘Wired Next Fest’), diretto tre riviste (‘Rolling Stone’, ‘Wired’ appunto, ‘GQ’) e un museo d’arte contemporanea (il Museo di Villa Croce a Genova), prodotto alcuni film con Luca Guadagnino (che hanno guadagnato alcune nomination agli Academy Awards, e uno vinto), insegnato all’università e collaborato con centri di ricerca e di progettazione architettonica. È anche giornalista di moda e innovazione.

Testo

Moda come industria culturale ibrida
di Giannino Malossi

«Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».
Italo Calvino, “Palomar”

 

C’è una premessa da fare, prima di iniziare qualunque discorso sulla moda oggi. Va chiarito, che la moda è un’industria piuttosto importante in Italia, e questo a Torino in particolare dovrebbe essere sempre tenuto presente, perché qui fino a pochi anni fa aveva sede il Gruppo GFT, che è stata nei decenni ’70-’80 la più grande azienda europea di confezione moda.

 

Dalla rilevanza industriale della moda in Italia discende la considerazione che la moda ha nel mondo economico e mediatico nazionale. La presenza sul territorio di tutti gli elementi della filiera della industriale della moda nei distretti industriali ha orientato fortemente il discorso sulla moda verso una prospettiva strettamente industriale. Ma la moda, di per se, è un fenomeno culturale, un linguaggio espressivo, un sistema di segni. Il valore aggiunto che l’industria della moda produce è il risultato della ibridazione tra gli elementi materiali (il tessuto, la confezione) e immateriali degli abiti (l’attrattiva della moda, il sistema di segni che gli abiti incorporano). La moda è, in questo senso, un’industria culturale speciale, che riesce a incorporare valori immateriali nel tessuto materiale dei prodotti industriali. Un’industria culturale ibrida.  Questo testo parte da questa definizione della moda.

 

In Italia tutti amano la moda al punto tale che la cura per l’apparire – l’apparire molto, l’esuberanza dell’apparire – fa parte della immagine più immediata proiettata, esempio classico, da un gruppo di turisti italiani all’estero. La moda per gli italiani è una forma di comunicazione non verbale che deve funzionare al primo colpo d’occhio, se non proprio l’identità nazionale profonda, ammesso che esista qualcosa del genere in questi tempi di progressiva frammentazione e scomposizione sociale e culturale postmoderna. Dagli anni 80’ in poi, ma la tendenza era consolidata già negli anni ’70 daldel fenomeno Fiorucci e può essere fatta risalire al Dopoguerra, la radicale trasformazione dell’economia italiana ha ridisegnato anche il lato visivo del passaggio umano e sociale, dalla informe ristrettezza contadina, alla dignitosa compostezza operaia, fino all’affluenza accessibile diffusa o almeno esibita. 

 

Negli anni ’50 c’erano più sarte e sarti in Italia di quanti ce ne fossero nel paese dove, nel XIX secolo, è nata l’industria tessile, la Gran Bretagna. Per restare ancorati alla realtà materiale, secondo gli ultimi dati economici, nel 2023 il comparto industriale della moda ha fatturato più di 103 miliardi di euro, nonostante le note difficoltà del momento, dato positivo che comprensibilmente riempie di orgoglio le numerose organizzazioni che rappresentano il settore.  Due, tre, quattro generazioni di italiani e italiane hanno costruito la loro identità facendo leva sulla moda. In questo panorama la generale attitudine al gusto italiano per il vestire curato viene trasmessa insieme al linguaggio naturale. Tra l’altro, le collezioni di moda per bambini sono un’invenzione italiana. Core de mamma. E occorre ricordare che all’industria della moda appartengono anche gli affluenti comparti degli accessori e dei cosmetici, compresi rossetti e lacche per le unghie, le tinture e le pettinature, i tatuaggi… il portamento e la prossemica… La moda riguarda tutto il corpo, anche le sue estensioni reali e quelle immaginarie, e non a caso si applica fino ai dettagli più personali, con l’obiettivo di fornire alle persone tool di definizione del fascino e del sex appeal. La moda nel XXI secolo è un catalizzatore dell’attrazione. Non si tratta più di potere persuasivo della pubblicità, gli “stili di vita” sono già di per sé compatibili e coincidenti con narrazione dei media, la pervasività del glamour nello spettacolo, è replicata alla stessa presenza fisica, materiale, della moda nelle strade delle città grandi e piccole di cui è cosparsa l’Italia, attraverso le vetrine dei negozi di moda, che spesso assomigliano a gallerie d’arte, e coltivano la loro immagine e i loro network di relazioni come un tempo facevano i galleristi e i mercanti d’arte, con la massima cura e diligenza. Una trasformazione che coincide con il passaggio alla post-modernità, il tramonto delle grandi mitologie del moderno, la famiglia tradizionale, la fabbrica fordista, il lavoro fisso e relativamente sicuro, e il “superamento” di tutto questo nell’ equivalenza universale delle ideologie, la prevalenza dell’individualità e del narcisismo come orizzonte assoluto, e il lavoro “creativo” nelle industrie culturali, che nel frattempo si sono trasformate, e ora includono il design, i media e le tecnologie digitali, lo spettacolo, il turismo, e ….la moda.

 

In Italia non occorre essere Hannah Arendt per sapere che “L’apparenza ha la duplice funzione di dissimulare l’interiorità e di rivelare una superficie”. Basta guardarsi in giro: lo fanno tutti. Una passeggiata al centro storico delle città italiane durante una domenica mattina verso l’ora dell’aperitivo è il migliore/peggiore metodo per ottenere una conferma empirica.  Ma lo stesso avviene anche negli innumerevoli centri commerciali dei suburbi italiani, dove se mai è più facile osservare anche le varianti impreviste e fantasiose dell’interpretazione sul tema a uso e consumo delle generazioni più giovani di ragazzi e ragazze, e le seconde e terze generazioni di immigrazione declinate a seconda degli intrecci tra la loro cultura e religione e attitudine di provenienza e li substrato nazionale in cui si trovano a vivere. Si, in periferia è diverso. Gli abiti costano e non tutti possono permettersi di spendere per vestire bene.  La vita è sempre e ovunque piena di problemi. Ma resta il fatto che apprezzare gli abiti, e intendere codici semantici e psicologici del vestire fa parte della normalità italiana del pittoresco contemporaneo e della narrativa universale, attraversa l’esperienza individuale e collettiva, immigrati inclusi (per fortuna). 

Del resto, la moda ha molte ha tutte le caratteristiche per far parte della cultura di massa: è un linguaggio visuale, facile, sensoriale, accessibile. Secondo il noto elenco, che non nomina mai esplicitamente la moda, che però èe  visibile in filigrana, stilato nel 1957 da Richard Hamilton, l’artista a cui si può far risalire la corrente britannica della Pop Art a cui tanto deve il mito della “Swinging London” e i suoi cascami italiani, l’essenza della cultura di massa è descritta così: “POPOLARE, EFFIMERA, FACILE DA BUTTARE, DI BASSO COSTO, PRODOTTA IN MASSA, RIVOLTA AI GIOVANI, SPIRITOSA, SEXY, APPARISCENTE, CLAMOROSA, GROSSO AFFARE”. Sembra il briefing del CEO di una maison per la creazione della prossima collezione. 

 

La moda è divertente, rimanda e si articola intorno al desiderio, alla felicità, alla leggerezza, o almeno alla sua rincorsa, senza chiedere grandi sforzi per essere capita. Dagli anni ‘60 in poi la moda ha apertamente influenzato la cultura italiana (nel cinema, nella fotografia, nel design) la cultura italiana ne ha tenuto conto, ampliando gli orizzonti al di là dell’ovvio, e portandolo la moda dentro al discorso la dialettica e la polemica, a vari livelli di definizione. 

 

Dal “Gattopardo” a “Blow Up”, passando dalla “La bella di Lodi” fino alle magliette a strisce di “Accattone”, la cultura narrativa e visiva italiana ha ampiamente incorporato la moda, se non altro come elemento descrittivo usato per tratteggiare personaggi, contesti e caratteri. Non sempre senza attriti.  La presenza invasiva della moda sulla scena delle apparenze italiane, interpretata come manifestazione di imposizione di modelli culturali estranei alla tradizione, e quindi all’autenticità dei valori veramente identitari e nazionali non è, non è sfuggita alla critica dell’alta cultura. 

 

La posizione di Pier Paolo Pasolini, che per quanto riguarda la sua immagine personale sapeva cogliere tutte le sottigliezze dello stile, e in ogni foto compare come sempre in versione sapientemente cool, è emblematica del rifiuto della moda da parte del milieu intellettuale. Pasolini nella moda vedeva la forza dell’attrattiva consumista, fronte avanzato e irresistibile della omologazione capitalista, quindi in realtà una riduzione dell’umanità e della cultura. In altri termini, il negativo delle conquiste emancipatorie della cultura progressista. Da parte sua, la moda ha positivamente contribuito alla de-formazione della famosa “Società dello Spettacolo” in cui le relazioni tra le persone sono mediate da immagini. Immagini di merci, per la precisione. Cioè, la società in cui la vita reale è plasmata dalle regole del capitalismo. Sta di fatto che la moda è un linguaggio ormai molto evoluto e consolidato, continuamente levigato e arricchito dall’uso che ne fa una numerosa schiera di addetti della comunicazione di moda, ricchissimo di sfumature e ghirigori retorici, dopo secoli se non millenni di esercizi di apparizione sulla scena delle corti dei potenti in ogni grado e luogo ve ne siano state, ce ne siano oggi e probabilmente ce ne saranno in futuro. Sempre declinata via via nei ranghi e nelle sfaccettature degli ordini di appartenenza. E tuttavia, nonostante questa dimestichezza con il potere, o più probabilmente proprio per questo, la moda rimane sempre, magicamente, in superficie,superfice, senza mai pretendere di approfondire le motivazioni profonde, perché del resto la moda è proprio la conferma del consenso generale e delle regole non scritte che determinano delle società, e le tendenze- del momento, sono solo infiniti rinnovamenti marginali, che non valgono una innovazione sostanziale, e hanno il solo scopo di promuovere il rinnovo del guardaroba. 

 

Sarà per questo che nella prosa giornalistica della moda, la parola “Rivoluzione” suona più che altro come un mantra senza conseguenze, e ci sono rivoluzioni a ogni Settimana della Moda, che durano, il più delle volte, appunto una sola settimana. La moda è, semplicemente, andare nella stessa direzione in cui soffia il vento. Un caleidoscopio perfettamente costruito, che funziona benissimo, sempre, in modo controllato senza bisogno di nessun progetto, purché i pezzettini di vetro colorato non si incastrino tra gli specchi di cui è formato. Anche a costo di uscire dalla realtà, in certi periodi storici. La nobiltà parigina ha pagato con le decapitazioni la notizia propria fedeltà alla moda di usare la farina bianca per rendere più candide le parrucche mentre il popolo pativa la fame. 

 

La moda è anche uno degli argomenti più amati dai media, soprattutto dai media digitali, come avviene oggi per i social, che possono mirare e colpire i target dei loro clienti (si chiamano proprio target=bersaglio) a un prezzo molto minore e in maniera molto più diretta della carta stampata. Ma fino a un decennio fa, era la stampa “di moda” ad avere il dominio del discorso pubblico sulla moda, una decina di testate, declinate nei diversi paesi, che facevano capo a un numero ancora più ristretto di gruppi editoriali.  Oggi, non ci potrebbe essere argomento più popolare sui social. La moda è un big business costruito sulla passione popolare, sulle aspettative narcisistiche diffuse in ogni strato della società e in ogni continente. Da parte sua la moda, intesa come industria nel suo insieme, ricambia questo amore interessato con lo stesso interesse: senza notizie la moda, semplicemente, non c’è. Fashion is the News (la Moda è la Notizia) era il claim auto-esplicativo di una delle prime americane riviste americane di settore, “Apparel Arts” (L’arte dell’Abbigliamento) nel 1931. 

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Bio

Giannino Malossi

Si occupa dei nessi tra Moda, Media, Design ed Economia curando strategie di comunicazione basate su strutture interdisciplinari di ricerca come Fiorucci Dxing e Fashion Engineering Unit che hanno prodotto pubblicazioni e mostre ed eventi tra i quali: “Il Senso della Moda”, per la XVI Triennale di Milano, 1979; “Tipologie dei comportamenti di Moda”, Biennale di Venezia 1980; “The Manipulator Eye”, Fashion Institute of Technology Museum, 1995; “Il Motore della Moda”, Pitti Immagine-Stazione Leopolda Firenze, 1998; “Volare, l’Icona Italiana nella Cultura Pop Globale”, Pitti Immagine-Stazione Leopolda Firenze, 1999; “Uomo Oggetto, mito, spettacolo e stile della maschilità”, Pitti Immagine- Stazione Leopolda Firenze, 2000 e Art Directors Club of New York, 2001.

Playlist

Fashion playlist ‘90-’00 selezione a cura di autori vari

Doc

Maurizio Vetrugno per Jana 1993

Concetto e intervento di Maurizio Vetrugno sugli spazi della boutique Jana nella sede in piazza Vittorio Veneto - 1993
Foto di Giorgio Mussa

Doc

Memorabilia

Da sinistra Massimo Farinella, Maria Pia e Alda, Spotorno 1954

Da sinistra Massimo Farinella, Alda e Maria Pia, Valdellatorre, giugno 1956

I genitori di Alda: da sinistra il padre Emilio Farinella, la madre Adriana Corino, Pasquetta 1957

Alda Farinella

Alda Farinella

Libretto universitario di Alda

Libretto universitario di Alda

Jana, invito per la collezione autunno inverno 1995, stampa su cartoncino, 14,8X10,5 cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, cartolina d’invito per la presentazione della collezione primavera estate MARTIN MARGIELA, 23 febbraio 1995 stampa su cartoncino, 10,5X14,8cm. courtesy JANA

Jana, polaroid autografa, 2003 ca.

Jana, invito per la collezione primavera estate, 12 febbraio 2005, stampa su cartoncino, 21x14,8cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, invito per la collezione primavera estate, 12 febbraio 2005, stampa su cartoncino, 21x14,8cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, invito per la collezione primavera estate 2006, stampa su cartoncino, 21x14,5cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, invito per la collezione primavera estate 2006, stampa su cartoncino, 21x14,5cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, invito per la collezione autunno inverno 2007, stampa su cartoncino, 21x14,8cm. courtesy Andrea Cortella

Jana, invito per la collezione autunno inverno 2007, stampa su cartoncino, 21x14,8cm. courtesy Andrea Cortella

Crediti

Un progetto di
Circolo del Design

 

A cura di
Maurizio Cilli
Sara Fortunati
Stefano Mirti

 

Con il patrocinio di
Città di Torino

Maggior sostenitore
Fondazione Compagnia di San Paolo

 

Con il contributo di
Regione Piemonte

 

Finanziato da
Unione europea – Next Generation EU


Il Circolo del Design è sostenuto da
Camera di commercio di Torino

 

Episodio 02
JANA – L’universo di Alda Farinella

 

Direzione
Sara Fortunati

 

Curatela
Maurizio Cilli
Stefano Mirti

 

Coordinamento di progetto
Marilivia Minnici

 

Art Direction
Studio Grand Hotel

 

Setup
Marilivia Minnici

 

Piattaforma web
NewTab Studio

 

Contributi critici a cura di
Carlo Antonelli
Giannino Malossi

 

“Serien°umerica X JANA”
Serien°umerica
Maria De Ambrogio
Stella Tosco

 

con la collaborazione di
Matteo Giaretti
Federico Ponzo
IAAD. – Istituto d’arte Applicata e Design
Corso in Textile & Fashion Design

 

Video “Testimonianze”
IED Torino
Studenti e studentesse del terzo anno del Corso Triennale in Fotografia:
Giulia Ballerini
Alessio Bergadano
Luca De Stefano
Silvio Giovanni Maria Figliuolo
Nicoló Paolo Mattalia
Stefano Puntillo
Emanuele Riva
Alessandro David Scalzeggi

Video “Bakstage Serien°umerica X JANA”
IED Torino
Studenti e studentesse del terzo anno del Corso Triennale in Fotografia:
Pietro Maria Campi
Gian Marco Geraci
Federico Lombardo
Elisa Scarduelli
Erika Sorbello
Andrea Terlizzi
Greta Verduci

 

Docenti IED coordinatori e coordinatrici del progetto
Eleonora Diana
Guglielmo Diana
Federico Lagna

 

Coordinatrice del Corso
Giulia Ticozzi

 

Foto in mostra di
Marinella Gazzano
Alberto Nidola
Silvia Pastore
Maurizio Vetrugno

 

Assistenza alla produzione
Nicholas Sabena

 

Allestimenti di mostra
Screw! Project

 

Comunicazione
Marta Della Giustina
Beatrice Vallorani

 

Ufficio stampa
Spin-To

 

Project controller
Enza Brunero

 

Fundraising
Rossana Bazzano


Segreteria organizzativa
Dana Segovia

 

Amministrazione
Aline Nomis

 

Intern
Nicole Campesi
Ilenia Povero
Victoria Vera

 

In collaborazione con
IED – Istituto Europeo di Design
IAAD. – Istituto d’arte Applicata e Design

 

Un ringraziamento speciale a
Carlo Clinco
Massimo Farinella
Marinella Gazzano
Rita Oddo

 

Si ringraziano per la collaborazione
Gianfranco Cavaglià
Angela Cecchinato
Andrea Cortella
Federico De Giuli
Isabella Errani
Alberto Nidola
Silvia Pastore
Matteo Thiela
Maurizio Vetrugno
Margherita Verani
Giorgia Zerboni